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Le comunità energetiche come risposta ai valori del nuovo ambientalismo

Intervista Walter Ganapini, ambientalista, docente e ricercatore italiano. L’ambientalismo è definito come la politica per la difesa dell'ambiente,…

10/11/2022

Intervista Walter Ganapini, ambientalista, docente e ricercatore italiano.

10/11/2022L’ambientalismo è definito come la politica per la difesa dell’ambiente, inteso come luogo in cui si svolge la vita umana, animale e vegetale, soprattutto in relazione ai problemi dell’inquinamento, del degrado ambientale e dello sfruttamento delle risorse naturali. A questa politica corrisponde un’azione di informazione per la salvaguardia dell’equilibrio naturale che tuttavia necessita di soluzioni concrete a supporto del cambiamento che intende generare.

Le comunità energetiche come risposta ai valori del nuovo ambientalismo

In un momento storico in cui la coscienza sociale si dirige con sempre maggiore determinazione verso la difesa delle risorse naturali e verso uno sviluppo economico che le preservi e tuteli (almeno a parole), il tema della transizione energetica può occupare un ruolo significativo andando ad interessare un bene primario che riguarda davvero ognuno di noi. Per farci raccontare come si sia evoluta negli anni la sensibilità di persone, imprese ed istituzioni nei confronti dell’ambiente e come esperienze di democrazia partecipativa, come le Comunità energetiche, possano essere un valido alleato per il raggiungimento di parte degli obiettivi che la corrente ambientalista mira, e concorre da decenni a raggiungere, abbiamo intervistato Walter Ganapini, ambientalista, docente e ricercatore italiano, membro onorario del Comitato Scientifico dell’Agenzia europea dell’ambiente, cofondatore di Legambiente ed ex presidente di Greenpeace Italia.

Qual è il significato profondo del termine “ambientalismo”?

L’attenzione alle questioni ambientali può essere ricondotta alla straordinaria Rachel Carlson, biologa e zoologa che negli anni ’60 scrisse un libro intitolato “Silent Spring” (“Primavera silenziosa”), un’opera che descriveva, per la prima volta, come le attività umane, in particolare industriali ed intensive, stessero aggredendo pesantemente la qualità delle risorse naturali alla base dell’ecosistema.

L’ecologia, intesa come disciplina, è molto precedente, la si deve ad Ernst Heinrich Haeckel, ma si trattava di una descrizione quasi tassonomica delle specie. In questo senso, l’ambientalismo inteso come fenomeno sociale, culturale e scientifico la andò ad integrare, considerando pienamente le attività antropiche come causa della modifica dei fragili equilibri ecosistemici.

In particolare l’ambientalismo scientifico prende corpo in Italia nei primi anni ’70 grazie a profili di alto livello come quelli di Giorgio Nebbia e Laura Conti, che misero in luce i grandi limiti delle attività antropiche guidate esclusivamente da una filosofia produttivista (profitto per pochi a scapito dei costi sociali e ambientali su molti).

La “casa comune terra”, come la chiama Papa Francesco, è infatti un sistema finito e reale e come tale non può contenere risorse infinite. Nel patrimonio culturale dell’umanità, il concetto di limite esiste da sempre, ma nel corso del “secolo breve” ci si è incardinati su una dissennata lettura lineare dei fenomeni con l’idea che le risorse potessero essere considerate inesauribili.

L’ambientalismo scientifico ci spiega che viviamo in un mondo complesso e pertanto è necessario darne una lettura sistemica, capace di valutare gli antroposistemi. Si è trattato di una conquista culturale molto importante che sa di dover essere contemporaneamente anticorpo per denunciare e contrastare ciò che porta alla messa in discussione degli equilibri naturali che sono fondamentali per gli insediamenti umani, e contemporaneamente deve essere catalizzatore di azioni sociali, culturali e scientifiche per modificare questo stato delle cose.

Come si è evoluto negli anni lo sviluppo della coscienza sociale per la difesa delle risorse naturali e per lo sviluppo sostenibile?

Io mi sono laureato a Bologna e nella mia Università c’era un fregio con su scritto “omnia in mensura et numero et pondere” quindi “tutto è nella misura, nel numero e nel peso” che vuol dire basarsi sui fatti scientificamente riconoscibili, lungi da ogni tipo di allarmismo. È su questa base che si muove l’ambientalismo scientifico.

Ho avuto la fortuna di essere membro effettivo del Comitato scientifico dell’Agenzia europea dell’ambiente, dall’84 al ‘92. In questi anni producemmo un rapporto che si chiamava “Lezioni tardive da allarmi precoci”, mettendo insieme tutte le informazioni disponibili, partendo da quelle scientifiche, su fenomeni gravi come quelli dell’amianto e delle diossine. Da questo rapporto emerse chiaramente come la risposta sociale agli allarmi precoci lanciati dalla scienza fosse lenta, e ancor più lenta fosse quella dei poteri economico-finanziari e poi delle istituzioni.

Nonostante ciò, riuscimmo a porre le basi per il principio di precauzione e piano piano questo tipo di consapevolezza venne rafforzata. Nel ‘92 ci fu il primo Summit della Terra, tenutosi a Rio de Janeiro, in cui vennero enunciate le grandi priorità relative al cambiamento climatico, senza purtroppo riuscire a dare seguito alle indicazioni che venivano dalla scienza. Si arrivò così ad una situazione che era stata prevista già negli anni ‘70 dal Club di Roma con il rapporto intitolato “I limiti della crescita”: la mancanza di misure definitive e l’assenza di sanzioni per chi nega le evidenze scientifiche proseguendo su una strada che non è più percorribile.

Dopo tutti questi anni la strada da percorrere rimane sempre la stessa: il riportare l’attenzione verso la persona, le relazioni e la comunità. Questa è la sfida della transizione.

Il percorso dell’ambientalismo oggi incontra quello delle Comunità energetiche. A suo parere, come possono queste ultime contribuire realmente alla transizione energetica?

Il contesto non aiuta. Sul piano normativo tutto è fatto per complicare questi processi di transizione con decine di atti di normazione secondaria che non vengono mai concretizzati ed il problema non è tecnico. Il nodo fondamentale è che la transizione deve vedere crescere nuovi comportamenti, stili di vita, modi di produrre e consumare, inglobando il concetto stesso di sostenibilità come definito da Gro Harlem Brundtland nel suo rapporto dell’87.

Semplificando, la sostenibilità è “sapere che abbiamo ricevuto la terra in prestito dai nostri figli”. Questo richiede un approccio di solidarietà diacronica, di equità intergenerazionale e soprattutto intra generazionale. Tutti aspetti richiamati con forza sia nell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, che nella Laudato si’ di Papa Francesco.

È evidente come la sostenibilità sia un tavolo a tre gambe: sociale, economica ed ambientale. Tutte e tre devono essere in movimento ed in generale non c’è sostenibilità se non c’è democrazia ed approccio partecipativo. Questo significa iniziare a lavorare sui nostri comportamenti a livello individuale e poi comunitario: efficientare responsabilmente la gestione delle risorse naturali, la mobilità, la costruzione di infrastrutture verdi, i corridoi verdi, e così via.

Se non c’è approccio partecipativo, sensibilità molto forte e democrazia, è inutile parlare di sostenibilità e di transizione.

Il futuro possibile c’è, e c’è anche una “cassetta degli attrezzi” che le Nazioni unite ci hanno fornito con l’Agenda 2030 ed i 17 obiettivi di sviluppo sostenibile. La variabile che incombe è il tempo: sono già passati quasi 8 anni e quasi nulla è stato fatto, considerando che gli unici elementi di contenimento delle emissioni venivano da un Europa che pesa per il 9% sul totale emissioni scala mondo.

La sfida che abbiamo davanti è quella di gestire sistemi complessi in un regime di incertezza e di scarsità di tempo, quindi diventa necessario mettere a frutto tutte le esperienze virtuose – e le Comunità energetiche sono fra queste -, proprio per il loro valore sociale. Passare a queste forme di generazione di servizi energetici libera risorse, limando i profitti incredibili di poche persone nel mondo e rendendo disponibili risorse per strategie inclusive e di welfare che ci possano fornire una versione migliore del mondo in cui viviamo.

Per nostra fortuna nel mondo ci sono già delle “oasi” di cambiamento. A noi il dovere morale di metterle in rete per dare vita alla carovana del cambiamento che porti avanti il percorso della transizione.

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2 risposte a “Le comunità energetiche come risposta ai valori del nuovo ambientalismo”

  1. sono curioso, mi occupo di sistemi anaerobici e solido che producono 100kw e altrettanta energia termica oltre ad un digestato che è nei fatti un fertilizzante…. tre in uno… sono impianti che possono essere costruiti in aree di 1200/1500 mq e funzionano con gli scarti agricoli e biologici presenti sul territorio… a disposizione per approfondimenti… perchè una comunità energetica dovrebbe partire con impianto come quelli di cui mi occupo e, semmai, essere integrati da pannelli solari.

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